Nella pubblicazione curata in occasione dei festeggiamenti di S. Antonio di Padova, lo storico Lucio Fiore fornisce una versione inedita e interessante sulla scomparsa della statua d’argento del santo nel periodo della Rivoluzione Napoletana
In occasione dei festeggiamenti di S. Antonio di Padova il Comitato organizzatore ha realizzato una brochure intitolata “Sul culto di S. Antonio di Padova in Atripalda”. Una iniziativa meritoria perché, anche se in modo molto sintetico, riporta, accanto a diverse fotografie - alcune inedite -, delle notizie di cui non si era a conoscenza e qualcuna di cui si era persa la memoria. La più interessante di queste notizie è quella relativa ad un atto notarile del 1661 da cui si evince che le celebrazioni liturgiche del 13 giugno, festa del Santo, avvenivano nel convento di San Giovanni Battista, dove la statua veniva portata giorni prima con un particolare rituale per essere poi riconsegnata ai responsabili della cappella del Santo sita nella chiesa di S. Ippolisto.
Da una pubblicazione del canonico Sabino Barberio edita nel 1780 sappiamo che la statua del Santo, risalente al 1600, consisteva in un mezzobusto d’argento con bambino e giglio.
Secondo Lucio Fiore, estensore dell’opuscolo, questa statua venne sostituita con una in legno, che è poi quella che è giunta fino a noi - anche se fortemente rimaneggiata a seguito dei danni subiti da un incendio avvenuto nel 1964. La sostituzione viene attribuita a seguito di un furto sacrilego da parte di soldati francesi presenti in Atripalda nel periodo della Rivoluzione Napoletana del 1799: “Per quanto riguarda la scomparsa della statua di S. Antonio, bambino e giglio in argento, l’ipotesi più accreditata è che fu asportata dai soldati francesi nel 1799…”. Quest’affermazione è molto importante e rappresenterebbe un contributo storiografico davvero originale se fosse basata su atti documentali. Fino ad oggi si è ritenuto che diverse statue d’argento, presenti nelle nostre chiese, principalmente in quella di S. Ippolisto, fossero state sostituite con altre in legno o in gesso a seguito della requisizione voluta da Ferdinando IV di Borbone per finanziare la guerra del 1798 contro i francesi che avevano proclamato la Repubblica Romana. Non è una questione di poco conto, considerato il ruolo che Atripalda ha avuto, attraverso il tributo di sangue e di persecuzioni, nelle vicende del 1799. Nelle sue “Cronache del Giacobismo Irpino”, Francesco Scandone riporta che a fine gennaio 1799, dopo aver eretto l’albero della libertà “…con gran concorso di popolo…”, (affermazione presente nei suoi ponderosi studi sulla Rivoluzione Napoletana solo per Atripalda), il presidente della municipalità eletto, Carlo Del Re, concludeva il suo discorso esclamando “… il tiranno è fuggito; e ci ha spogliati degli argenti e degli ori…”. Questa affermazione risulta ancora più rilevante perché proveniente da uno che conosceva bene la situazione, essendosi egli stesso adoperato nell’anno precedente per il reclutamento della leva necessaria ad attaccare la Repubblica Romana.
Nessuno accenno sulla sorte della statua di S. Antonio venne fatto tra l’altro durante le celebrazioni del bicentenario della Rivoluzione tenutesi ad Avellino e ad Atripalda, anzi in quell’occasione venne sottolineato quanto è stato prima affermato, cioè che dalle requisizioni borboniche si salvarono solo le statue argentee dei santi protettori. Successivamente nel 2004, a seguito di ulteriori ricerche, il prof. R. La Sala nel suo saggio storico intitolato “Giuseppe Cammarota e la Repubblica del 1799 ad Atripalda e casali” (contenuto nell’opera “Avellino e l’Irpinia nel 1799” a cura del prof. F. Barra) riporta che vennero asportati dalle chiese di Atripalda candelabri e oggetti vari d’argento per il mantenimento delle truppe rivoluzionarie presenti ad Avellino e Atripalda: “dalla vendita di tutti gli ingensieri (sic) presi a forza da’ Luoghi Pii si ricavarono 298 ducati e fu razziato anche “il poco argento dei Luoghi Pii” di Cesinali per 58,60 ducati…”.
È noto agli studiosi che le vicende del 1799 presentano vistose lacune storiografiche e rendono arduo il compito di una ricostruzione fedele ed esaustiva, in particolare degli avvenimenti locali, poiché, per disposizione reale, tutti gli atti relativi a quegli anni vennero bruciati e distrutti. Altrettanto fecero coloro che presero parte attivamente agli eventi, avendo tutti i motivi per disfarsi di documenti compromettenti. Nel registro delle delibere relative alla Rivoluzione del 1799, presenti nell’archivio storico del nostro Comune, si ritrovano, infatti, ad esempio le due delibere dell’undici agosto e del primo settembre, intervallate da una pagina bianca volutamente scolorita con una sostanza chimica, che testimonia la manomissione a fini censori. A questo si aggiunge la distruzione, durante la seconda guerra mondiale, di gran parte dell’Archivio Storico di Napoli con i relativi originali, fonte primaria per gli studiosi insieme all’Archivio Storico di Palermo, dove, per opera degli stessi Borboni, vennero trasferiti numerosissimi atti riguardanti il Regno di Napoli. Ben vengano contributi che apportino novità, a tutto vantaggio della nostra comunità molto povera di memoria storica e collettiva.
È importante che, accanto alla storia generale caratterizzata dai grandi eventi, marci di pari passo la storia minore, la microstoria come è stata definita; questa microstoria non può essere infatti disgiunta dalle realtà locali, dagli uomini e dai fatti che caratterizzano un grande avvenimento perché con essa sopravvive una memoria che altrimenti andrebbe irrimediabilmente smarrita. Dare voce a livello locale a uomini e vicende non riconosciuti nella propria importanza è certamente opera lodevole, perché tramite quest’operazione è possibile trasmettere alle generazioni future valori che altrimenti verrebbero dimenticati. Basta citare le fonti.
Biagio Venezia