Le tende, le roulotte, i container, i prefabbricati leggeri: a chi non ha conosciuto, a chi ha dimenticato o ha rimosso dalla memoria è dedicato questo scritto
Durò un minuto e trentadue secondi la scossa tellurica di trent’anni fa, una durata interminabile che produsse danni in una zona vastissima della Campania e della Basilicata. Le zone interne delle due regioni, la cosiddetta “terra dell’osso”, furono squassate da una furia devastante che sbriciolò case e cose. Paesi che già avevano conosciuto i terremoti del 1930 e del 1962 furono ancora una volta devastati. Un’intera generazione di oggi non ha, per fortuna, vissuto quei terribili momenti, quel rumore sordo che saliva dalle viscere della terra, quel vento che sembrava sradicare gli alberi, quel cielo rosso che evocava l’inferno. Altri giovani, allora ragazzi, ricordano invece i disagi, le paure, le angosce per aver vissuto per anni in situazioni precarie. Le tende, le roulotte, i container, i prefabbricati leggeri. A chi non ha conosciuto, a chi ha dimenticato o ha rimosso dalla memoria, è dedicato questo scritto, perché quell’avvenimento è parte della nostra storia, ha cambiato la nostra vita e ha trasformato la nostra città.
In questi giorni verranno versati fiumi d’inchiostro. In molti Comuni si terranno convegni, conferenze e altro per esaltare o criticare quello che è stato fatto e per proporre quello di cui vi è ancora bisogno. Per la nostra città è importante far conoscere alcuni aspetti di quello che è avvenuto, ed è questo lo scopo di questo scritto, che sarà arido e omissivo in considerazione dello spazio e delle forze a disposizione di chi scrive. Atripalda non ebbe vittime, ma la città venne fortemente danneggiata nella parte più antica e sul lato sinistro della strada che porta a Cesinali; in generale i danni maggiori li subirono le chiese, che divennero tutte inagibili. A quei tempi non esisteva la Protezione Civile e i soccorsi, in un’eccezionale e irripetibile gara di solidarietà, cominciarono ad arrivare in tutta l’area terremotata dopo qualche giorno. Colonne interminabili di automezzi risalirono l’Ofantina per portarsi nella zona del cratere: S. Angelo dei Lombardi, Conza, Lioni, Teora furono i comuni che in provincia di Avellino contarono più vittime. Le città italiane che maggiormente si distinsero per lo spiegamento dei soccorsi nelle nostre contrade furono le città di Bergamo e di Reggio Emilia. Ad Atripalda i soccorsi con generi di prima necessità arrivarono dall’Emilia e da un comune del Lazio: Monte Porzio Catone.
In questo caso, tende e vettovaglie furono portate da un singolare personaggio che rimase in città per oltre due mesi. Per la sua provenienza fu soprannominato “Catone”: ogni mattina faceva il giro delle tendopoli e degli automezzi adibiti a dormitori portando latte caldo, divenendo subito benvoluto e ancora adesso in tanti certamente lo ricordano con affetto. Verso la fine del gennaio successivo Catone anticipò ad alcuni l’intenzione di spostarsi nella zona del cratere e, dopo aver racimolato qualche lira per tagliarsi i capelli, scomparve così come era apparso.
Un importante aiuto giunse inoltre dai militari di stanza alla base Nato di Napoli che, poco prima del sopraggiungere della pioggia e del freddo, montarono alcune decine di grosse tende che, forse, rappresentarono la salvezza per molti anziani e bambini. Anche in questo caso si instaurò con quei soldati, quasi tutti di colore, un rapporto amicale. Ma il contributo maggiore alla nostra città ci venne dai militari del IV Battaglione Genio Alpino “Orta”, presente nell’area terremotata con 400 uomini e mezzi. Oltre a fornire pasti caldi, il contingente assegnato ad Atripalda realizzò con i propri mezzi il riempimento del dislivello di C.da Santissimo costruendo un ponte militare “Bailey”, che, anni dopo, fu convertito in quello definitivo attualmente presente. Per l’opera prestata nelle zone terremotate, il battaglione ricevette la medaglia di bronzo al valore dell’esercito. Atripalda, nel 1991, volle ringraziare quegli uomini, quei nostri giovani soldati, dedicandogli l’attuale piazza “Alpini Orta”.
Sono passati trent’anni: oggi vi è la necessaria serenità per volgersi indietro e tentare di stabilire se le valutazioni politiche, sociali ed economiche di allora siano state le migliori. Non avrebbe senso ripetere lo stillicidio di accuse che per decenni è stato scagliato contro scelte urbanistiche sbagliate, ad esempio contro quelle effettuate negli anni Sessanta. Ma tacere sarebbe altrettanto sbagliato, perché si giustificherebbero anche tutti gli errori che sono stati commessi.
Prima della tragedia del 1980 a livello urbanistico Atripalda presentava aspetti edilizi contraddittori. da un lato l’edilizia degli anni del boom economico, dall’altro il lento inesorabile disfacimento della parte più antica della città. Pur mantenendo il suo plurisecolare assetto, il centro storico mostrava il volto degradato tipico dei paesi dell’Appennino meridionale, e aveva subito una sorta di spopolamento dovuto alle nuove costruzioni di edilizia popolare e residenziale di via Appia e l’espansione urbanistica verso la direttrice per Avellino. Resistevano tra quei vicoli e quelle stradine della vecchia città longobarda gli atripaldesi più autentici, quelli che vi risiedevano da diverse generazioni, in una città che cambiava rapidamente anche la sua composizione sociale, in quanto centro attrattore di cittadini provenienti da altri comuni per la vicinanza al nucleo industriale e ad Avellino.
L’identità atripaldese era quasi un tutt’uno con la parte più antica in modo particolare con il quartiere di Capo La Torre. All’indomani del sisma, subito si pose il problema del destino di questo quartiere e della parte più antica. Va rilevato, che pur fortemente danneggiato, il centro storico non aveva subito danni irreparabili: infatti non era avvenuto nessun crollo totale. Sulla sorte di tale parte della città si scontrarono due posizioni divergenti: la prima proponeva di ingessare, murandone, qualora ve ne fosse stato bisogno, gli ingressi di tutte le strade più pericolanti, in attesa di una legge sulla ricostruzione. La seconda era quella che proponeva di abbattere il più possibile, indistintamente, forse con la convinzione di avere poi una città più moderna e più bella. Purtroppo fu proprio questa seconda posizione a prevalere. Si assistette così per settimane al lavoro devastante delle ruspe che non risparmiarono nulla, neanche gli arredi sacri, e non si riuscì nemmeno a salvare lo stallo ligneo, di pregevole fattura, della Congrega dell’Annunziata e di quella di S. Maria delle Grazie. Tutto avvenne sotto lo sguardo ammutolito della maggioranza dei cittadini, incapaci di valutare di fronte a una tragedia di grandi dimensioni quello che era più giusto. Solo una minoranza di atripaldesi cercò di opporsi, in diversi casi con proteste plateali, come accadde a Via S. Giovanniello o a Piazza Municipio, riuscendo a salvare dall’abbattimento qualche importante fabbricato. Ventuno cittadini si ritrovarono addirittura denunciati e dovettero subire un iter processuale che si concluse con un’amnistia.
(Fine prima di due parti)