Domenica, 02 Feb 25

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Uno sguardo sul ponte

Uno dei simboli di Atripalda merita di essere rivalutato. Il pilone lungo via Tiratore contiene ancora molte tracce di storia

Ogni comunità, anche la più piccola, ha i suoi luoghi della memoria, luoghi che la maggior parte delle volte vengono gelosamente preservati, ma che purtroppo in alcuni casi vengono trascurati. Ad Atripalda ve ne è uno in particolare che finora non ha ricevuto la considerazione che invece merita: è il ponte ferroviario della linea Avellino-Rocchetta S. A. (1895) che scavalca il Sabato tra le strade che portano a Serino e a Cesinali. Questo ponte era conosciuto dai nostri padri come il ‘ponte di Milano’, una strana denominazione, di cui una curiosità derivante anche dal mio essere ferroviere mi spinse molti anni fa a cercare la ragione, chiedendo ad anziani colleghi. La spiegazione più plausibile deriva dal fatto che l’ingegnere direttore dei lavori, all’epoca della sua realizzazione (1890-1893), si chiamasse appunto Milano.

Si tratta di una struttura imponente, di particolare interesse paesaggistico: un grande viadotto curvilineo in pendenza composto da sedici arcate a tutto sesto della larghezza di undici metri ognuna per una lunghezza complessiva di 225 metri, costruito in muratura di mattoni legati con malta di calce idraulica. È una delle maggiori opere d’ingegneria dell’intera linea, lunga circa 120 km, che con le sue 33 stazioni, gli oltre cento caselli ferroviari, le 19 gallerie – la maggiore, quella di Montefalcione-Arianello, supera i 2600 m –, i 108 viadotti che scavalcano il Sabato, il Calore e l’Ofanto, nonché le innumerevoli valli e i corsi d’acqua minori (tra tali viadotti spiccano per le loro caratteristiche tecniche, oltre a quello di Atripalda, il ‘Ponte Principe’, costruito tutto in ferro nei pressi di Lapio e lungo 340 metri, e il ponte obliquo sul Calore all’ingresso della stazione di S. Mango) costituisce un’opera maestosa e complessa di archeologia industriale. Per la costruzione della linea, suddivisa in tre tronchi, vennero appositamente realizzate due fornaci Hoffmann a Nusco e a Calitri, mentre per il tratto iniziale tra Avellino e Montemarano si utilizzarono quelle esistenti ad Atripalda e quelle che erano servite per la realizzazione delle linee Avellino-Mercato S. Severino (1879) e Avellino-Benevento (1891), oltre alle innumerevoli ‘carcare’ per la produzione della malta. I resti di una di queste carcare sono ancora visibili all’inizio del ponte sulla strada che conduce a Cesinali.

Negli ultimi tempi il ponte di Atripalda è ritornato di attualità per via del dibattito  approfondito e contrastato che si è animato sulla linea ferroviaria in questione. Dalla fine del 2010 la linea è chiusa ma non è stata dismessa, i tentativi per utilizzarla a fini turistici avevano cominciato a dare i primi frutti quando è intervenuta la decisione contenuta nel Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale (PTCP) di una sua riconversione in Greenway (Strada verde) ciclabile dal costo di svariate decine di milioni di euro. Forti sono state le reazioni negative a tale progetto: il problema non è soltanto l’elevato costo e la dubbia possibilità di un’effettiva realizzazione, ma il rischio della cancellazione dell’identità del paesaggio che questa linea crea, essendo essa una strada verde su ferro testimone di un periodo storico e di un territorio di grande interesse e di grande bellezza. Sarebbe opportuno che l’Amministrazione comunale aderisse anch’essa all’associazione dei comuni che si è costituita a difesa del mantenimento della linea, perché non è la prima volta che grandi progetti, ancorché inutili, rischiano di diventare occasioni di spreco di denaro e di tempo. La strada da percorrere è invece quella di una concreta rivalutazione paesaggistica, che può partire solo dall’apposizione di un ferreo vincolo da parte della Soprintendenza. Questo perché il ponte di Milano rappresenta per Atripalda e per la Valle del Sabato non solo una parte della sua storia e della sua memoria, ma anche uno degli emblemi del suo panorama.

Il ponte ferroviario dell’Avellino-Rocchetta S. A. è uno dei luoghi della memoria per la nostra comunità: questo non solo per il suo indubbio pregio architettonico, ma anche per un significato intrinseco al valore della memoria stessa. Prima della sua urbanizzazione, e più precisamente prima del terremoto del 1980, la zona dove sorge il ponte si presentava diversamente rispetto a oggi. Lasciata p.za Garibaldi e l.go Ferriera iniziava una cupa – l’attuale via Tiratore – lungo la quale erano presenti, fin dove essa finiva per un restringimento dovuto al fiume Sabato da una parte e a via Serino dall’altra, una decina di piccoli poderi. Pur essendo una strada senza sbocco, essa era conosciuta ai più perché all’altezza dell’ex ASL era presente un piccolo invaso naturale che veniva usato dalle lavandaie e diveniva nel periodo estivo un luogo di balneazione per i giovani. Poco lontano si trovano le arcate del ponte. Il pilone, che funge da spartitraffico, prima della curva per c.da Santissimo, ha una caratteristica particolare. Se si osservano i singoli mattoni, si possono  scorgere fino a un’altezza di circa due metri numerose scritte che riportano una moltitudine di nomi, tracce di storie lontane che ancora ci parlano. Perché ci siano quelle scritte è facile intuirlo: il posto si trovava all’estrema periferia ed era sicuramente un luogo privilegiato, anche di giorno, per chi voleva appartarsi. Le incisioni non recano soltanto i nomi, ma anche le date e, da quello che sono riuscito a decifrare, la più vecchia risale al 1910, mentre la più recente al 1970. La prima volta che notai queste scritte fu alcuni decenni fa e ricordo la presenza di nomi tedeschi e inglesi, sicuramente di soldati della seconda guerra mondiale. Una curiosità: rispetto ai miei ricordi, dei nomi tedeschi ne è rimasto soltanto qualcuno, per il logorio del tempo molti mattoni si sono sfaldati, in alcuni casi però la facciata sembra staccata da uno scalpello, e la domanda che mi sono posto è: si tratta solo di una coincidenza, oppure qualcuno  è ritornato ad Atripalda a riprendersi quel mattone della sua memoria?

Da qualche ricerca effettuata è emerso che la presenza di soldati tedeschi ad Atripalda durò per quasi tutto il mese di settembre del 1943 dopo lo sbarco di Salerno, mentre la permanenza ad Avellino di un contingente di soldati canadesi si protrasse fino al 1945. Non sono riuscito a reperire un volume del giornalista Andrew Clark intitolato A keen soldier (Il lamento del soldato) che, interessatosi della fucilazione di un soldato canadese avvenuta ad Avellino, potrebbe riportare qualche riferimento anche alla nostra città.

Vale la pena ritornare a guardare quei mattoni, che è come ci parlassero di persone e storie lontane. Uno di essi ci dice che nel 1910 Gennaro Corsi si trovava sotto quel ponte, così come Antonio Salvi il 4 marzo del 1929 o R. Alvino nell’ottobre del 1939. La curiosità spinge a chiedersi se E. Rudbal (oppure Erudbal) da Windsor in Ontario che incideva il suo nome o cognome nel marzo 1944 o R.G. Craig da Rossland (sempre in Canada) che faceva la stessa cosa il 22 dello stesso mese, venuti da una terra tanto lontana, siano poi tornati alle loro case e quale sia stato il loro destino. Forse non lo sapremo mai, loro certamente avranno ricordato Atripalda e la loro storia di quel giorno. L’Ufficio Cultura e l’Assessorato Comunale potrebbero approfondire la questione per un simbolico gemellaggio con una delle località che sono rimaste scolpite sui mattoni del ponte, gemellaggio in onore di chi è venuto a combattere in una terra straniera per un avvenire comune. Anche per queste piccole storie il nostro compito è quello di salvaguardare il ponte ferroviario che passa per Atripalda, qualunque sarà il destino della linea che lo attraversa. Solo coltivando la memoria del passato è veramente possibile progettare un futuro solido e condiviso.

 

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