Storie di un tempo che scorreva lento e gustoso come un buon bicchiere di vino
Nel nostro viaggio nei sapori e nella cultura legata ai gusti di Atripalda risulta di particolare interesse rilevare quanto la capacità ricettiva e ristorativa della nostra città in quanto grosso centro commerciale e importante snodo viario abbia da sempre rivestito un ruolo decisivo. Anche per ampliare le conoscenze della mia memoria qualche sera fa ho posto delle domande a un gruppo di amici con cui conversavamo intorno a una panchina della piazza circa le strutture che in alcuni casi sono del tutto scomparse e in altri si sono profondamente trasformate, ovvero taverne, cantine e locande. Questa conversazione è stata particolarmente stimolante poiché avveniva subito dopo la mia casuale lettura di una pubblicazione dello storico Andrea Massaro, autore di decine di monografie sulla vita in Irpinia, che trattava l’argomento in modo vasto e approfondito, anche se relativamente alla città di Avellino. In queste pagine ci sono riferimenti anche alla nostra città; scrive infatti Massaro, «[…] Sul Ponte Sabato ed in Atripalda sono attive e frequentate molte taverne. Il 29 luglio 1608, il notaio Vincenzo Pepino, come ha scritto Francesco Barra in un suo saggio sugli ebrei tedeschi nel Seicento, si porta in una stanza della Taverna Laurenzano affittata dai fratelli Laurenzano al “milanese” Cesare Morrone, per rogare un atto importante. In questa taverna atripaldese, ma dalla vocazione cosmopolita, confluiscono ebrei tedeschi, due dei quali, Laurenzio Tesignor e Joanne Haym, assistono quali testimoni, al testamento lasciato da Joanne Vitiman nelle mani del citato notaio Pepino…». Questa testimonianza fa emergere una realtà importante per Atripalda sicuramente almeno dal secolo precedente, ovvero la presenza di molte taverne. Una lunga tradizione storica che giunge fino ai nostri giorni e che rende ancora vivida la microstoria sempre interessante della nostra comunità.
Per quanto riguarda tempi più recenti, dai primi anni del Novecento, possiamo ricordare le taverne atripaldesi presenti in via Melfi, in quella strada che allora era senza uscita su via Roma ed era denominata à rete e vardelle - tale toponimo derivava dalla presenza di botteghe che realizzavano basti e selle per equini -. Ve ne erano due, la prima nello slargo iniziale e la seconda, la più importante, sull’area del palazzo che attualmente ospita la Filantropia. Quella che invece si incontrava per prima venendo da Avellino, molto modesta, occupava i locali della Pro Loco e lo spazio lato ferrovia sotto la chiesa della Maddalena. Un’altra ancora aveva l’ingresso dal portone della famiglia Barile (ex magazzini Tutto) a via Roma, mentre a via Manfredi ne era presente una nel fabbricato Oliva. La più importante, e anche la più grande di tutti, si trovava in via Fiumitello di fronte alle case popolari ed era gestita da Amelia Sarno: luogo di incontro, data la sua posizione ai piedi delle salite che portano a Manocalzati e a San Potito, dei possessori dei “velanzini”, cavalli che servivano per “l’appontatóra” ed erano di grande aiuto di fronte a strade che erano caratterizzate da notevoli pendenze. Nella maggior parte queste taverne fungevano da stallaggi per il riposo dei cavalli e dei loro conducenti, lungo viaggi che erano sempre estenuanti considerate le distanze e le condizioni delle strade sterrate di allora. Una vita durissima quella dei carrettieri, che operavano in tutte le stagioni con qualsiasi condizione atmosferica di giorno e di notte, in quest’ultimo caso con la sola illuminazione di un lume a petrolio che serviva più a far individuare il traino che non a rischiarare la strada.
In queste strutture erano presenti, tra le altre, figure professionali che oggi sono quasi scomparse e ormai si trovano soltanto presso gli ippodromi: gli ‘artieri ippici’, operatori addetti alla cura dei cavalli sotto tutti gli aspetti. Atripalda aveva una sorta di collegamento speciale con Melfi della Basilicata, ove è ancora presente un florido mercato simile al nostro e questo spiega il nome della nostra omonima via. Raggiungere Melfi con carichi di tutti i generi non era cosa facile, data anche la presenza di bande di briganti che trovavano facile preda. Da ragazzo mi veniva raccontato degli scontri a fuoco sul Malepasso - il tratto di strada nazionale che da Salza I. sale fino a Volturara, - o sotto “ ó piscone” di Chiusano San Domenico con le bande dei briganti irpini che infestavano le nostre zone, prima con Lorenzo De Feo (Laurenziello) da Santo Stefano del Sole e dopo fino al secondo dopoguerra con Vito Nardiello da Volturara. Una vita quella del carrettiere che diveniva quasi un binomio uomo-cavallo, uomini di coraggio, senza volto e senza storia, ma da cui è dipeso molto di quello che siamo.
Accanto alle taverne proliferavano le cantine, intese come osterie, che in diversi casi fungevano anche da locande. Al contrario delle strutture odierne che servono più che altro a degustare, esporre e pubblicizzare, queste antiche cantine svolgevano in maniera rustica ma efficace tante funzioni diverse, oggi affidate di solito a strutture differenti.
Fino al terremoto questa tipologia di cantina è stata sempre abbastanza numerosa ad Atripalda, anche grazie al ruolo attrattore a livello sociale che la nostra città ha sempre avuto nel passato. Dall’antica Civita Abellinate alla città commerciale degli ultimi secoli, grazie alla posizione geografica favorevole legata anche all’aspetto viario, Atripalda ha sviluppato in modo naturale la sua predisposizione commerciale. Alcune di queste cantine, per lo più quelle in periferia, erano legate alla presenza di fabbriche o attività che occupavano allora numerosi operai. Tre in special modo avevano la loro ragione d’essere per la presenza della grossa fabbrica di laterizi Berardino e per la più piccola di Modestino Loffredo. Una era situata in via Circumvallazione di fianco al vivaio Bilotti ed era condotta da ’Ntonio ’e Cóglia (Maffeo), un’altra invece si trovava alla fine della prima salita per Manocalzati, gestita da Nicolina ’e Trentaróe (Moschella), l’ultima delle tre infine sulla strada per San Potito condotta da Pasquale ’e Arzò Arzò (Nigro). La clientela era in maggioranza composta dagli operai delle fornaci che nel periodo invernale vi si raccoglievano per un piatto di brodo caldo e nei restanti mesi per il vino accompagnato dal classico tarallo col finocchietto.
Era uso per tutte le cantine apporre una frasca al proprio ingresso quando vi era una nuova fornitura di vino, per segnalare l’avvenuto approvvigionamento. La cucina era quella popolare caratterizzata dai prodotti locali: in vetrina si mettevano in mostra il soffritto di maiale, i fegatini avvolti nella ‘rezza’ con foglia di Lauro, salsicce con i ‘friarielli’ e il sempreverde baccalà. Le numerose osterie presenti ad Atripalda assolvevano al ruolo di locali di ritrovo (funzione che oggi è delegata ai bar), ma erano anche strutture ricettive essendo fornite tutte anche di qualche camera per dormire. Una sola, per quanto è di mia conoscenza, aveva invece le caratteristiche di una vera e propria locanda, ed era quella situata in via Manfredi e conosciuta come Albergo Perillo. Ricordo molto bene questo particolare perché in essa dagli inizi di dicembre trovavano ospitalità gli zampognari abruzzesi tra cui per anni si è distinto Zì Minco.
Le più note locande che io ricordi erano quelle di Scioccolillo (Spina) nel centro storico di fronte all’effige della Madonna di sotto all’arco, Grappolo d’oro (Siano) in via Aversa, Tuppillo (Moschella) in via Fiume, Tommaso ’O Capitano (Alvino) in via Cammarota, Nappa in via Fiume, Cantelmo in piazza Garibaldi, Nunzio ’E Carretta (Sarno) a via Serino, ’A Foggiana sulla Maddalena, Fiorina presso ’A Casa Spaccata sulla strada che porta a Serino. Un’altra - di cui non conosco il nome del gestore - si trovava alla fine di via Appia sul triangolo che divideva contrada Novesoldi dalla strada che porta ad Avellino, un’ultima - di cui mi è stato riferito, ma che personalmente non ricordo - era gestita da un fratello di mons. Luigi Barbarito.
Tutte queste strutture erano essenzialmente a conduzione familiare, con un rapporto diretto tra il gestore e i suoi clienti, e senza tanti filtri formali. Il locale era semplice, generalmente un unico ambiente, con le cucine non a vista come nei moderni ristoranti alla moda; i tavoli venivano apparecchiati solo al bisogno e tenendo conto che su di essi venivano svolte anche altre attività molto importanti ai fini della socializzazione, ovvero i giochi, dei quali il più comune era sicuramente quello delle carte. In ogni caso andare in un’osteria non significava soltanto bere e mangiare, ma soprattutto vivere il proprio tempo in compagnia, giocando, fumando e dialogando.
Nell’elenco precedente ho omesso volutamente Zì Pasqualina a Valleverde perché è l’unica ancora in attività, che si è guadagnata una fama nazionale, presente in tutte le guide del ramo.
La trattoria di Zì Pasqualina nasce nel 1953 anch’essa a ridosso di un luogo di lavoro che vedeva la presenza di operai, fornitori e operatori. Infatti, separata dalla sola strada che conduce a Pianodardine, su un’area ove attualmente si trovano due grossi supermercati, sorgeva la LA.R.I. (Latterie riunite irpine) un impianto di grossa consistenza che eseguiva la lavorazione del latte con la realizzazione di prodotti caseari e per l’imbottigliamento. Questo stabilimento della famiglia Argenziano, ex allevatori originari di Mercogliano, raccoglieva attraverso piccoli camioncini il latte in tutte le campagne della media Irpinia, generando un notevole andirivieni per quasi l’intera giornata in quanto provvedeva anche alla distribuzione. Era questa realtà, insieme alla nascente fabbrica per la lavorazione delle ciliegie e delle castagne impiantata da Ferdinando Gasparini e dalla moglie piacentina Maria Marcotti, come ricordato pregevolmente - in occasione della scomparsa di quest’ultima, nel 2009, seguita nello stesso anno da quella del figlio Gianni – da parte del prof. R. La Sala, la base della clientela della giovane trattoria attrezzata con alcuni posti letto e fornita, come per altre trattorie, con un campo di bocce dove si poteva passare il tempo praticando uno degli sport più popolari di allora. E allo sport è anche legata la notorietà che negli anni questo locale si è guadagnata fino ad arrivare a essere inserita nelle maggiori e più prestigiose attuali guide enogastronomiche, considerato che nel 1956 veniva inaugurato il “Valleverde”, il nostro glorioso ma decaduto campo sportivo. Attraverso la parentesi della I categoria e successivamente della serie D degli inizi degli anni Sessanta, Atripalda visse un’esaltante stagione sportiva ospitando migliaia di tifosi dagli Abruzzi alla Sicilia. Era naturale che questo flusso di forestieri convergesse nel posto di ristoro più vicino. Tradizione questa che Zì Pasqualina e il suo Valleverde onorano ancora oggi. La notorietà si è maggiormente ampliata con l’adesione e l’accettazione nell’associazione “Mesàli” - termine che nel dialetto irpino indica la tovaglia su cui si mangia - che riunisce poco più di una decina di punti di ristoro nell’intera provincia in un progetto culturale che è stato definito “Transumanza gastronomica irpina”, teso a far conoscere i prodotti e i sapori della nostra terra e dei suoi incantevoli paesi.
Con Zì Pasqualina giungiamo all’evoluzione dell’antica trattoria che ha saputo aggiornarsi e riammodernarsi per riuscire a stare a passo con i tempi. I luoghi di cui abbiamo parlato non erano soltanto adibiti alla consumazione di pasti, ma anche e soprattutto occasioni per instaurare relazioni sociali e personali. Il tempo passava lentamente nelle vecchie osterie della nostra cittadina: oltre al mangiare, riservato per lo più ai forestieri, gli avventori solevano nei giorni festivi giocare a bocce, e non è un caso che la posta fosse sempre la stessa, ovvero il vino. Le lunghe serate specialmente quelle autunnali e invernali venivano impegnate in partite a carte, rigorosamente napoletane, a tressette e briscola, giochi che nella maggior parte dei casi si giocava in quattro. Alla fine la posta in palio veniva distribuita attraverso un ulteriore gioco che coinvolgeva anche coloro che avevano assistito alla partita. Il nome di quest’ultimo era quello di “Padrone e sotto”. In estrema sintesi si distribuivano quattro carte ciascuno, chi prendeva la migliore ‘primera’, carte di semi diversi, diventava padrone; chi prendeva il miglior ‘fruscio’, carte dello stesso seme, diveniva ‘sotto’. Il padrone comandava, il sotto disponeva: l’obiettivo era quello di mandare a ‘Urmo’, cioè senza far bere un goccio, chi era antipatico o chi si voleva punire. Un gioco molto pericoloso che a volte ha causato addirittura tragedie, fortunatamente nella nostra realtà non si ricordano episodi di grossa gravità. Uomini che erano amici in tutto, e dopo ritornavano ad esserlo, diventavano - durante il gioco - nemici acerrimi per tutta la vita. Un passatempo che può sembrare tipico di alcune classi sociali ma che invece coinvolgeva tutti: le fonti letterarie sono abbastanza nutrite in materia. Carlo Levi ne parla nel suo Cristo si è fermato a Eboli, ma l’esempio più eclatante è quello riportato da alcuni biografi vaticani che raccontano di papa Sisto V che, volendone capire lo spirito e le reazioni che innescava, volle provare ‘quel gioco da suburra’ e dinanzi alle ripetute sconfitte condite da velenose soddisfazioni di cardinali avversi si rese protagonista di una furibonda rissa trattenuto a stento dai vescovi presenti. Ai giorni nostri questo gioco è quasi scomparso e con esso anche il rituale fatto di discussioni di ragionamenti che nonostante i fumi dell’alcol e le frequenti asperità a volte duravano ore e che non erano affatto vacue. Oggi le cantine sono ormai scomparse soppiantate da ristoranti e alberghi ove ci si reca quasi sempre per un pranzo veloce e una permanenza obbligata, senza quell’atmosfera semplice e umana che caratterizzava le antiche osterie e locande anche della città, un’atmosfera scandita da un tempo che non correva veloce e impersonale, ma scorreva lento e gustoso come un buon bicchiere di vino.