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La gi... rotonda

Nella nascente rotatoria di via Appia andrebbe collocato un simbolo

L'acquedotto romano

Da diversi mesi sono in corso i lavori per la realizzazione di una rotonda e il rifacimento del marciapiede all’ingresso della superstrada per Salerno. Lavori che vanno molto a rilento, causando non pochi problemi al traffico per Salerno e Avellino e per l’ingresso delle autostrade per Napoli e Bari.

Ad una prima occhiata, la nuova rotonda si discosta dal modello della rotonda presente all’incrocio della Maddalena, che ricalca quasi fedelmente il motivo costruttivo del basamento del monumento di epoca romana i cui resti si trovano a Parco delle Acacie e che era collocato all’ingresso dell’anfiteatro dell’epoca. Quel richiamo si è dimostrato una scelta fortunata perché ispirata a una parte della nostra storia e all’importanza della vasta colonia romana dell’antica Abellinum. In riferimento alla rotonda in costruzione, invece, da quello che si può osservare finora l’unico motivo ispiratore sembra essere quello pratico, relativo allo scorrimento del traffico. Eppure per la posizione poteva essere un’occasione, così come è stato in tanti paesi e città, di rimarcare una caratteristica peculiare della nostra città e quindi della nostra identità; così è stato ad esempio a Solofra, dove al centro della rotatoria all’ingresso della città, dopo l’uscita della superstrada, è stato collocato un pregevole monumento alla figura del conciatore di pelli, emblema del lavoro e della cultura solofrana.

Quale poteva essere per la nostra città un simbolo che la caratterizzasse? Per una realtà come la nostra, dove la storia si perde nella notte dei tempi, vi sarebbe stato solo l’imbarazzo della scelta. Personalmente ne ho individuati alcuni che avrebbero ben potuto rappresentarci. Il primo riguarda una tradizione non scritta ma consolidata che riconosce in Atripalda una città amante dei forestieri, sempre pronta ad accogliere chi ha scelto di stabilirvisi. Il secondo elemento lo ritroviamo nelle cronache di Pasquale Stanislao Mancini sul principe che Dante aveva definito «biondo, bello e di gentile aspetto»: «il costume e la superbia delle corti obbligava in quei tempi i sovrani a sedere soli a pranzo, escludendo rigorosamente le donne, ritenute esseri inferiori, ma il re Manfredi volle che fosse spezzata questa barbara usanza dicendo: Spezzerò io questa barbarie cominciando dal dì di oggi e il castello di Tripaldo serberà memoria di me». Un episodio che rende quella che era la corte atripaldese un esempio di lungimiranza e apertura assolutamente all’avanguardia per i tempi. La proposta di evidenziare questo aspetto storico venne avanzata da Sabino Tomasetti in una delle sue monografie e credo che sarebbe opportuno riprenderla e collocarla, qualora ve ne fossero le basi, nel suo giusto contesto. Magari si potrebbe descrivere artisticamente questo episodio così affascinante in modo da rendere profetiche le parole che avrebbe pronunciato lo stesso Manfredi.

Ma c’è un altro elemento che caratterizza la storia, la vita sociale e culturale di Atripalda, che da sempre ha donato benefici alla nostra città, ovvero l’acqua. La stessa conformazione geografica che vede il fiume Sabato attraversare il centro cittadino, lambendo la piazza principale, rende unico il nostro panorama nel contesto dei paesi e delle cittadine dell’Irpinia. Senza dimenticare anche due affluenti importanti come il Salzola e il Rigatore. È noto che prima dell’incanalamento nell’acquedotto di Napoli delle acque del Sabato, il fiume era la maggiore risorsa energetica della città, grazie alla quale la nostra cittadina divenne anche una realtà artigianale-industriale di un certo rilievo. Nei secoli scorsi, infatti, sulle rive del Sabato hanno trovato la loro collocazione decine e decine di attività artigianali e manifatturiere: ferriere, gualchiere, mulini, semenzai, ecc., ovvero tutte attività che erano mosse dall’energia idraulica dei fiumi. Fino al terremoto del 1980 erano ancora visibili, in taluni casi anche praticabili, i vecchi collettori che portavano acqua ai diversi opifici. I molini-pastifici Piccolo a Fiumitello e Porcelli a largo Ferriera erano tra le attività più rappresentative; la fase della sola sfarinatura avveniva invece in altri opifici minori come quello di ‘Sverzeca’ della famiglia Della Sala a Pianodardine e Cennamo, passato successivamente alla famiglia Capaldo, sempre a largo Ferriera (senza contare quelli che si trovavano in piena campagna). Peccato che la struttura del mulino dei Cennamo sia stata ampiamente modificata e con tale modifica siano scomparsi sia il canale adduttore (ovvero lo stesso del mulino Porcelli), sia l’antica ruota in ferro che muoveva le grosse mole interne. La stessa sorte sembra abbia ricevuto il mulino di Pianodardine.

Si potrebbe parlare a lungo dell’importanza dell’acqua per Atripalda, ma il modo più efficace per farlo avrebbe potuto essere proprio quello di rappresentare artisticamente l’acqua, magari collocando nella nascente rotatoria di via Appia una parte di arco diroccato a ricordo dei vecchi acquedotti, per non dimenticare anche che il primo di epoca romana augustea (33-12 a.c.), che riforniva fino alle basi di Capo Miseno, passava già allora per Atripalda.

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