Giovedì, 21 Nov 24

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E la banda suonava…

La festa di San Sabino, una storia lunga quattro secoli

Sono passati circa quattro secoli da quando furono istituiti i festeggiamenti religiosi-civili di settembre del santo patrono San Sabino, nati come è noto, per perpetuare il ricordo della traslazione delle reliquie dalla chiesa superiore allo Specus avvenuto nel 1612. Da allora la festività si è succeduta con regolarità interrotta, come nel passato, solo da gravi avvenimenti, quali epidemie, guerre, terremoti. Come per tante vicende manca una ricostruzione cronologica e un'attestazione documentaria definitive sulle edizioni della festa: Sembra quasi che Atripalda voglia rimuovere il suo passato,o non sia capace di mantenere efficacemente e produttivamente il ricordo. Una certa perplessità mi ha assalito quando ho deciso di mettere sulla carta i miei ricordi, la domanda che mi ponevo era: a chi interessa,a cosa serve? E’ prevalsa la convinzione, di certo venata da nostalgia, che riannodare i fili dei propri ricordi personali alla trama delle vicende e della tradizione della nostra città sia ancora qualcosa di utile, nonostante il fatto che con gli anni e con l'avvento di nuove mode e consuetudini sia sempre più difficile tenere viva una memoria collettiva dalla quale tutti possano dare un proprio contributo. Ma proprio perché viviamo in un'epoca in cui tempo e spazio sono simultaneamente immessi in un vortice continuo che sembra voler divulgare nella lentezza del ricordo, il compito è quello di ravvivare la memoria comune, è di sicuro la festa patronale è uno degli eventi che non può cancellare, perché parte di noi stessi, è dentro di noi. Il tentativo con questi ricordi è di fare un salto all'indietro nella memoria, dalla seconda metà degli anni '50, cercando di far rivivere e di far conoscere le atmosfere, i personaggi, i luoghi, gli avvenimenti che ruotavano intorno alla festa di San Sabino a settembre, che, fino agli anni '70 era tra le maggiori in Irpinia, anzi era 'la festa' per antonomasia, punto di riferimento, per tutta la Valle del Sabato e motivo di attrazione provinciale. Le funzioni religiose avevano inizio con la novena e vedevano la partecipazione durante la messa serale dei migliori predicatori. La processione partiva intorno alle ore 18:00 (non era stata ancora introdotta l'ora legale) con la statua argentea del santo portata a spalla. Il più delle volte avvenivano delle vere e proprie dispute tra i tanti fedeli che desideravano portare la statua, considerato che per loro rappresentava un onore percorrere il tragitto tradizionale della processione. Tale cammino consisteva nell'attraversare, tra vicoli e viuzze, tutto il centro storico, soffermandosi nella piazzetta a Capo la Torre dove la leggenda vuole vi fosse la casa del santo, per sbucare a via Serino, e procedere per la discesa di via Palazzo dove, dagli anni '60 era in attesa un carro artisticamente infiorato, che percorreva le vie della città arrivando fin nelle periferie. In alcuni anni la statua veniva portata lungo un tragitto che giungeva da un lato fino a c.da Novesoldi e dall'altro specularmente fino a via Pianodardine, girando dinanzi al mulino di Sverzeca. All'attraversamento da parte della processione di ogni via principale veniva sparata una batteria alla "bolognese" effettuata con tracchi e grosse cipolle che facevano tremare e a volte rompere i vetri delle abitazioni. Particolarmente intenso era il momento del ritorno della statua da via Appia, quando essa appariva all'inizio di Piazza Umberto I gremita fino all'inverosimile di gente di altri paesi, considerato che la maggior parte degli atripaldesi era al suo seguito. Al ritorno della statua da via Manfredi in piazza venivano accesi "fuochi a terra" un tipo di artificio pirotecnico basato sulla precisione delle micce che innescavano in modo sincronizzato: girandole, colombine, bengala, con cascate multicolori che contornavano l'immagine del Santo. Per molti anni questo tipo di spettacolo veniva realizzato dalla ditta del Cav. Marzatico. Nel 1964 i festeggiamenti religiosi raggiungevano il culmine in occasione del Congresso Eucaristico, che, dal 30 agosto al 6 settembre, vide la presenza ad Atripalda di numerosi vescovi e del cardinale Giuseppe A. Ferretto. Il mattino della vigilia i festeggiamenti venivano aperti dallo sparo della "Diana" granate e colpi scuri a cui ha provveduto per anni Marchitiello di Manocalzati, un autentico artista del "fuoco di giorno" al quale era affidato il compito di eseguire i vari fuochi organizzati dai quartieri al passaggio della processione. Subito dopo le strade erano animate dalle note delle bande che si sarebbero esibite in serata. La città si presentava addobbata da luminarie di artistico pregio, ogni strada aveva i suoi archi luminosi, ogni vicolo la sua frasca, a cui provvedevano in quegli anni Umberto e Mincuccio Caronia. I capiarchi, strutture di pali alte oltre i 15 metri aprivano sulla Maddalena e sul Ponte delle Carrozze autentiche gallerie luminose, che in piazza diventano spalliere che chiudevano in un'unica prospettiva una composizione che copriva quasi interamente la facciata della Dogana rappresentante una veduta di una delle celebri piazze italiane. Per alcuni anni i fratelli Caronia vennero affiancati dai grandi artisti della scuola barese, in particolare i Faniuolo di Putignano, che portarono ad Atripalda le loro rinomate creazioni di composizioni merlettate, che rappresentavano uno spettacolo anche da spente. In piazza venivano approntate due casse armoniche artistiche e per l'esibizione delle bande musicali e, sia nel giorno della vigilia che in quello della festa, si svolgeva una vera e propria gara i migliori concerti lirico-sinfonici dell'epoca. Tutte le grandi bande sono passate per la nostra città, da quelle pugliesi a quelle abruzzesi con i loro indimenticabili abili maestri: Ligonzo, Centofanti, D'Ascoli ecc. A volte le esibizioni avevano il carattere di vere e proprie sfide, il maestro Amerigo Piccioni che aveva sposato un'atripaldese e per questo si sentiva un po' di casa e godeva dell'appoggio di amici e parenti concludeva la sua esibizione con il Bolero di Ravel, integrando qualche carenza con artifizi scenografici, ad esempio posizionando i due tamburi sulla scala della cassa armonica. Durante una delle esibizioni il maestro Nicola Centofanti aveva preparato un brano di sicuro effetto, ovvero una Variazione del Carnevale di Venezia, di J.B.Arban che fece eseguire dai suoi solisti di cornetta, flauto e bombardino. Gli spettatori rimasero incantati e tra scroscianti applausi sottolinearono la bravura del maestro Gioacchino Ligonzo. Vi era una ragione in tutto questo interesse e in questa partecipazione oltre alla competenza dell'uditorio locale rappresentato principalmente da artigiani, barbieri, calzolai, tra cui Polisto e O’ Barone, autentici melomani che seguivano le esecuzioni fischiettando tutte le note e richiamando prontamente maestro e solisti in caso di qualche omissione o errore nelle parti più tecniche, foltissima era la presenza dei tanti 'masti 'e festa' che avevano il compito di contrattare sul posto le bande per ingaggiarle in vista delle ricorrenze nei loro paesi. Queste contrattazioni assieme a quelle per i fuochi avvenivano nei locali del Gran Caffè Napoletano. Ma come si presentava Atripalda la sera della festa? Abbiamo sottolineato la straordinaria presenza di forestieri, ma era tutta la città ad essere interessata da un così sentito coinvolgimento. Vi era la consuetudine da parte di numerosi contadini provenienti anche dai paesi molti distanti (ad esempio da Bagnoli Irpino) di recarsi nei giorni che precedevano il 16 settembre in pellegrino a Montevergine, facendo di solito coincidere questo appuntamento con la fine dei lavori pesanti agricoli che si effettuano ad agosto, infatti dopo la mietitura, iniziava la preparazione del terreno per la nuova seminagione del frumento e la pulizia del sottobosco delle selve di castagno. Tutta questa gente di ritorno dal santuario si fermava ad Atripalda per la festa e abitualmente per stanchezza si sdraiava sulle rampe della casella del dazio e dinanzi al monumento dei caduti in attesa, a notte inoltrata, di riprendere il cammino per ritornare alle loro case. Le trattorie dell'epoca approntavano posti tavola all'aperto e a via Fiume e via Aversa da “Tuppillo" e da "Grappolo d'oro" si poteva vedere una lunga serie di tavoli; non da meno erano gli altri luoghi di ristoro situati nelle altre zone della città. Molto frequentata era la pizzeria di don Giovanni che si trovava all'inizio di via Manfredi, caratterizzata da un piccolo porticato ad archi. I bar della piazza erano affollatissimi: sempre richiesto era "lo spumone", un semifreddo dal sapore incomparabile, come pure erano i sorbetti al limone di due autentici maestri gelatai, Francisco e Paoluccio, che con i loro carrettini avevano il vantaggio di potersi spostare seguendo la folla. Ogni tanto si levava una voce stentorea "Chi vo' beve" era Carmela che dal limitare di "sotto 'e teglie” dispensava ogni sorta di bibita rinfrescante. Al vertice del triangolo del monumento dei tanti venditori di noccioline americane, il suo banco era caratteristico perché le vendeva calde servendosi di un forno a legna dell'eccentrica forma di locomotiva, richiamando i clienti attraverso un fischio simile a quello di un treno. Con un carrettino si aggirava tra la piazza e le strade circostanti un venditore di fichi d'India, che, assieme alla postazione fissa del venditore di fette di noci di cocco, portava i sapori e i colori di frutta esotica, che oggi è considerata comune, ma che allora risultava particolarmente pregiata, e che poteva essere degustata soltanto durante la festa. Le bancarelle diffuse sui marciapiedi vendevano principalmente torrone "O copeto" esposto dai maggiori produttori della zona. Molti angoli della piazza erano punteggiati da gruppi variopinti di palloni, che a volte, o lasciati intenzionalmente o sfuggiti di mano, si perdevano in cielo. In via Fiume invece erano ubicate le baracche del Professore e di Michele, venditori di angurie tanto esperti che non tagliavano mai, per la vendita a fette, un melone incolore o scadente. Sullo spazio a triangolo opposto a quello del monumento ai caduti già alla fine di agosto si stabiliva un personaggio davvero particolare, simili ai tanti che siamo abituati a vedere ogni giorno in televisione e che in alcuni casi sono diventati autentiche star. Era il titolare di uno stand che richiamava molta gente per i prodotti esposti; motoscooter, biciclette, elettrodomestici, ecc. Non effettuava una vendita diretta, ma incassava lo stesso grossi guadagni attraverso un gioco che consisteva nel vendere delle cartelle alle quali corrispondevano dei numeri. Il possessore del numero estratto non vinceva mai nell'immediato, ma sceglieva una busta fra tante che gli erano proposte, busta che poteva contenere uno dei prodotti esposti nello stand. Iniziava così una trattativa fatta da offerte e inframmezzata da un intercalare diventato celebre "Signore la vuole o non la vuole" e condotta con raffinata perizia psicologica, destinata a concludersi con il rifiuto del premio proposto spesso di maggiore valore rispetto all'importo della giocata in tal caso l'apertura della busta era sempre una delusione perché o non conteneva nulla o un oggetto di scarso pregio, o con l'accettazione di un 'offerta di prodotti per un prezzo che al giocatore appariva conveniente, perché al di sotto di quello corrente, ma che veniva ampiamente recuperato dal venditore tramite il guadagno delle cartelle che erano state comprate. Lo spazio dei tigli era invece occupato dalle giostre, molto semplici negli anni '50 trattandosi di barchette oscillanti che gli stessi fruitori dovevano far dondolare, o di piccoli capolavori di legno,”O 'mbrello cinese” composti di una serie di animali situati su una piattaforma circolare che veniva fatta girare con la forza delle braccia. Successivamente fu il momento della tipica giostra con catene, poi cominciò quello dell'autoscontro e della musica a tutto volume. Sempre molto gettonate erano le postazioni del tiro a segno con i fucili ad aria compressa che sparavano piumini o pallini che, centrando una casetta, generavano un forte scoppio aprendosi e facendo comparire un cuculo; inutile raccontare le sfide per farsi belli con qualche ragazza… Sul marciapiedi della Dogana di fronte inoltre trovavano posto tre banchi con le roulette semplificata a 24 numeri, sempre affollate perché, insieme ai tradizionali avventori, vi stazionavano parecchi 'compari' dei titolari che avevano il preciso compito di vincere per incoraggiare gli astanti. Sulla facciata del cinema Ideal era posizionato un megaschermo che proiettava i trailer, “i prologhi" dei grandi colossal, in modo che fossero visibili a tutti: un intelligente trovata dei titolari Ettore, Manfredi, e Carminuccio che in questo modo reclamizzavano i grandi film che poi venivano proiettati nelle feste dei paesi della provincia. Il televisore era un bene che possedevano in pochi, ad Atripalda era arrivata nel 1957, nei paesini e nelle campagne era pressoché sconosciuta e per questo una forma di animazione delle serate di festa era quella della proiezione del film in piazza. In estate l'Ideal si trasformava anche in un cinema itinerante, che, con il proiettore montato su un furgone, arrivava finanche nelle più sperdute contrade. Anche in questo caso nella sera della festa erano conclusi contratti per la proiezioni dei film. Per molti anni l'operatore fu Pietro Romano "sallarino" un personaggio conosciutissimo ad Atripalda che all'inizio degli anni '70 ottenne un impiego stabile, che, costante nella frequentazione serale della piazza, rappresentava un pungolo per gli amministratori che non sfuggivano alle sue roventi polemiche. Volutamente sono stati omessi i cognomi e i soprannomi dei personaggi citati, con questa eccezione ho voluto ricordare ai tanti che l'hanno conosciuto un caro amico scomparso prematuramente. La festa era soprattutto questo: la banda suonava, la gente passeggiava, i parenti emigrati si ritrovavano, i ragazzi si divertivano e la serata volgeva al termine, anche se sarebbe ripresa il giorno dopo. Si avvicinava la mezzanotte, si svuotavano le osterie, dopo le ultime note si spegnevano le luminarie e si alzava dalla casa armonica uno squillo di tromba; subito dopo dalla collina di San Pasquale il primo colpo scuro che preannunciava la sarabanda della gara dei fuochi artificiali. Erano centinaia le persone che arrivavano ad Atripalda anche con pullman organizzati per assistere a quella che è stata per tanti anni la gara pirotecnica più importante della provincia. La vecchia piazza Umberto I rappresentava l'ambiente naturale per eventi di questo tipo: da dietro la facciata del convento di S. Giovanni Battista le bombe dalle molteplici aperture e composizioni di colori creavano nello specchio di luce sovrastante uno scenario unico e irripetibile. I protagonisti erano principalmente gli artisti della scuola napoletana: Vallefuoco, Farinara, Perfetto, Cipolla, ecc in un confronto che non aveva eguali data l'importanza della festa. Si sparavano fino alle 13 bombe da tiro con finali di oltre 10 minuti per ognuno, in qualche anno la gara non venne portata a termine per il sopraggiungere dell'alba. Tra i tanti fuochisti che si sono avvicendati, rimarrà nella memoria degli atripaldesi il Cav. Carmine Marano da Pratola Serra che ad Atripalda superava se stesso (qualcuno sostiene per motivi affettivi) i suoi finali erano davvero imponenti e, quando veniva inviato, alla fine dell'esibizione veniva portato sulle spalle dalla Civita, dove erano posizionati i mortai, fino alla cassa armonica dove avveniva la premiazione. La festa continuava il giorno dopo con il tradizionale spettacolo di musica leggera. Erano gli anni della canzone napoletana, ad esempio di Gloria Cristian, Giacomo Rondinella, Mario Abate, ecc. Per gli stessi cantanti era diventato un appuntamento irrinunciabile. Di quel periodo è rimasta impressa l'esibizione di Nino Taranto che, accanto al suo repertorio macchiettistico, recitò la poesia Fravecature, facendo conoscere, non solo a me, un poeta e commediografo che ancora oggi non ha avuto i riconoscimenti che merita, Raffaele Viviani. Agli spettacoli provvedeva l'agenzia del Comm. Cioffi di Cervinara, un personaggio che si presentava in modo serioso ed altero accompagnato da un collaboratore addetto a sbrogliare tutti gli imprevisti, un ruolo che si può ben dire assolveva in modo artistico, era egli stesso uno spettacolo folkloristico. A metà degli anni '70 per fortuita coincidenza, su una piazza che aveva visto il meglio degli artisti nazionali, si ebbe nella stessa serata l'esibizione dell'orchestra di Perez Prado e dei Platters, che anche se a fine carriera, erano ancora come lo sono rimasti tutt'ora delle icone della musica mondiale. Ritornava il silenzio, l'autunno e l'inverno si approssimavano, ma si avvicinava ancora la festa religiosa del 9 febbraio, l'arrivederci era per il nuovo anno per rimanere fedeli al motto popolare che recita "San Sabino apre e San Sabino chiude” con cui terminavano la maggior parte delle feste della provincia.

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