Mercoledì, 08 Gen 25

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Galante: un nome, un uomo

Galante Colucci (foto Biagio Venezia)

Morte, non essere troppo orgogliosa, se anche

Qualcuno ti chiama terribile e possente

Tu non lo sei affatto: perché

Quelli che pensi di travolgere

In realtà non muoiono…

(John Donne)

Questi versi mi sono riemersi da qualche angolo della mente assistendo all’andirivieni di tante persone presso l’abitazione prima e in chiesa poi, per la scomparsa del prof. Galante Colucci. Ogni volta che muore un uomo si è pervasi da grande malinconia, quando scompare chi si conosce passano dinanzi agli occhi immagini come in un film, che si trasformano in tanti ricordi. Con la scomparsa di Galante Colucci tutti abbiamo perso qualcosa, abbiamo perso un galantuomo che attraverso la sua passione dimostrava nei fatti il frutto della sua conoscenza, che si esplicitava soprattutto nell’amore per il paese natio e per quello di adozione. Era naturale incontrarlo di prima mattina con la cartelletta sotto il braccio mentre si avviava verso una biblioteca o un archivio alla ricerca di quella che si potrebbe definire: la memoria nascosta. Lo faceva con una costanza invidiabile, mossa dalla sete del sapere con l’obiettivo di condividere con tutti il risultato del suo lavoro. La sua non era la ricerca di un’erudizione, ma il risultato di una cultura scoperta e costruita pervicacemente passo dopo passo, che non si chiudeva in se stessa, ma si apriva agli altri con azioni concrete. Questo è sicuramente uno degli insegnamenti più preziosi che Galante ci ha lasciato: mentre l’erudizione è solo un accumulo di conoscenze fini a se stesse, la cultura, quella vera, è capacità di trasformare le persone, in modo da poter condividere con gli altri le proprie scoperte.

È stato già ricordato, e lo sarà sempre di più, il suo impegno nella difesa e nella valorizzazione dei beni culturali del suo paese natale, Baiano, e della sua Atripalda: tante cose sono diventate patrimonio comune grazie al suo incessante lavoro. I suoi molteplici interessi - che spaziavano dalla pittura allo sport, dal giornalismo alla fotografia - non hanno mai avuto lo scopo del tornaconto economico o del narcisismo personale, ma scaturivano da uno spirito di servizio verso la collettività. Era un uomo mite, mai che abbia alzato la voce, sapeva ascoltare, aveva la forza dei forti: l’umiltà.

Per chi l’ha conosciuto e ha apprezzato le sue doti, non è facile trovare parole se non rifugiandosi nel tratto biografico. Osservarne la bara posata ai piedi dell’altare per la cerimonia funebre mi ha spinto a guardarmi attorno, a cercarlo da qualche parte, così come in tante altre occasioni, perché era sempre presente per testimoniare la sua vicinanza e la sua solidarietà, sia che si trattasse di un confratello della sua amata congrega del SS. Rosario, o di un amico o semplicemente di un conoscente.

Non era un uomo egoisticamente ambizioso e non era nemmeno capace di capitalizzare utilitaristicamente il frutto del suo lavoro, cosa che riesce facile a tanti altri: si accontentava di poco e si inorgogliva senza ostentazione per i numerosi riconoscimenti che gli erano conferiti. Come non ricordare che, parlando della sistemazione delle sue carte, del suo materiale di lavoro e delle sue opere artistiche e fotografiche, il suo desiderio più grande era quello di poter un giorno allestire un piccolo locale dove crearsi un suo spazio e catalogare le sue cose, magari per poter incentivare anche i giovani alla scoperta e all’amore per l’arte. La drammatica difficoltà di trovare un lavoro in cui versano i giovani delle nostre zone pesava su di lui come un macigno e allora scomparivano dal suo viso la serenità e la soddisfazione, viso sereno che, seppur segnato dalla fatica, invece lo contraddistingueva al ritorno dalle sue uscite in bicicletta, dopo le quali, senza parlare, ti lasciava capire quello che pensava: “ce l’ho fatta”.

La sua era la tenacia dello studioso che con occhio allenato vedeva cose che altri non vedono. Guardava le pietre perché esse raccontano a chi sa leggerle tante cose, guardava il residuo basolato che lastrica l’ingresso della Dogana dei Grani, e che è presente ancora dinanzi a qualche superstite palazzo gentilizio, e si chiedeva da dove potesse venire quella pietra dura con tenui venature rosa così differente dalla pietra irpina tipica di Fontanarosa, convincendosi che si trattasse del prodotto di una cava locale. Questo attento e vivo spirito di osservazione lo portava a porre attenzione quando consultava gli archivi, specialmente quelli notarili, a qualche riferimento in materia, come pure era incuriosito dai lavori in rilievo sui vecchi portali, con la speranza di poter individuare gli artisti-scalpellini che operavano ad Atripalda nei secoli scorsi.

Credo che vi siano le condizioni per accogliere, e spero che la nuova amministrazione se ne farà carico, la proposta avanzata dal prof. F. Barra sul “Corriere dell’Irpinia” di «…raccogliere il materiale che ci ha lasciato, sia esso fotografico che saggistico, per rendergli omaggio…». Il destino con lui è stato crudele: l’ha portato via alla vigilia di un felice evento che riguarda uno dei suoi figli. Ma sono proprio loro così come la moglie e tutti quelli che lo conoscevano a dover pensare che, proprio perché era un uomo speciale, non bisogna in questo momento abbandonarsi a un dolore senza speranza, ma celebrare ciò che è stato e ciò che nella memoria sempre sarà. La sua indole gentile, mite e umile, così come l’eredità artistica e culturale che ha lasciato fanno sì che i versi del poeta siano ancora attuali: la morte non può vincere quelli che in realtà non muoiono.

Biagio Venezia

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