Domenica, 29 Dic 24

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Operazione “Slot”, il Riesame annulla gli ordini di arresto. Romano e Tavino tornano libere: Tutto un equivoco, incubo finito

Cadono gli indizi di colpevolezza anche nei confronti delle due donne atripaldesi: Mai avuto a che fare con le slot machine

Gli inquirenti

Non ci sono indizi di colpevolezza e non sussistono più le esigenze cautelari: ecco perché il tribunale del Riesame ha deciso la scarcerazione di tutti gli intestatari fittizi e dei baristi finiti al centro dell’inchiesta “Slot”. Scarcerati anche gli altri tre militari delle Fiamme Gialle Luciano Vitale, Gennaro Forgione e Antonio Amoroso, finiti in cella con l’accusa di favoreggiamento e rivelazione di segreto d’ ufficio. Sono liberi, da lunedì, Ciccarelli Gianluca, Battista Giuseppina, Martino Antonio, Puopolo Antonello, Ziccardi Simona, Della Pia Antonio, Pirone Romina, Pagnozzi Stella, Panella Renato, Gavitone Anna, Gavitone Raffaele, Mastrogiacomo Pasquale e Tavino Ornella. Per Nicola Galdieri sono cadute le contestazioni relative all’intestazione fittizia. Ora si attendono le motivazioni per cui i magistrati del Riesame hanno deciso sulle scarcerazioni di metà degli indagati (fra i quali anche la giornalista Cinzia Puopolo). Sotto le incessanti richieste dei legali degli arrestati, infatti, sembra essersi configurato un caso clamoroso che vedrebbe coinvolte anche persone estranee ai fatti come le due atripaldesi Ornella Tavino Antonia Romano: la difesa ha mostrato copia di una visura camerale per chiarire l’equivoco in cui erano caduti gli inquirenti e l’infondatezza dell’accusa di intestazione di beni fittizi che avrebbe nascosto il riciclaggio di denaro di un clan rappresentato dall’imprenditore Armando Della Pia. Le due donne, in realtà, avevano costituito una società nel 2008 per l’acquisizione di un negozio di frutta e verdura sito ad Avellino, negozio che fu acquistato il 4 marzo 2008. Ma una telefonata di metà marzo tra Giuseppina Battista e lo stesso Della Pia avrebbe messo in difficoltà le due donne poiché  da essa la Battista sarebbe risultata ancora  titolare effettiva dell’esercizio commerciale (come in effetti era poiché Antonia Romano e la madre Ornella Tavino presero possesso di esso solo dopo le autorizzazioni che seguirono la voltura e cioè il 19 aprile 2008, giorno in cui fu battuto il primo scontrino con la nuova intestazione). Anche dalla semplice visura camerale si sarebbe potuta determinare l’estraneità ai fatti contestati alle due donne.

«Voglio che tutti sappiano che siamo estranee ai fatti contestati, poichè gestiamo un negozio ortofrutticolo e non abbiamo alcun altro interesse»: così Ornella Tavino, tornata in libertà nei giorni scorsi. Fu arrestata il 21 giugno alle 3 di notte, insieme alla figlia Antonia Romano: il reato contestato alle due donne atripaldesi era quello di intestazione fittizia di beni. Dall’interrogatorio del riesame (avvenuto per rogatoria), l’avvocato Alfonso Maria Chieffo, che insieme all’avvocato Massimo Preziosi difendeva le due donne, ha dimostrato l’estraneità ai fatti contestati con una copia di un certificato camerale in cui si evincevano chiaramente tutti i passaggi avvenuti nel 2008 per l’acquisto del negozio, poi rivenduto nel 2010. «Prima di essere interrogate siamo state in una cella di isolamento: mia figlia per sette giorni ed io per due settimane; bastavano pochi minuti per chiarire, ma non ci hanno voluto né vedere né ascoltare. Non potevamo incontrare nessuno, mia figlia stava impazzendo perché non aveva nessuna notizia dei due figli piccoli. Siamo state trattate come criminali incalliti. In tutti quei giorni abbiamo letto e riletto le oltre mille pagine accusatorie e non trovavamo accenno del nostro coinvolgimento. Si parlava di slot, di bar, di tante cose ma di noi mai. C’è una telefonata del 7 marzo 2008 tra due persone che parlano del nostro negozio appena acquistato, ma noi effettivamente ne siamo entrate in possesso solo il 19 aprile del 2008. Per quell’acquisto siamo state sbattute in galera come delinquenti, eppure era tutto lecito, tutto documentato». Ora che sono libere, vogliono ricominciare. Dimenticare è difficile, ma lavorare servirà almeno a distrarle da quanto è avvenuto: «Mia figlia deve riprendere il servizio a Salerno: lei è dipendente del Ministero dell’Interno, il marito è nell’esercito. Quando ci hanno arrestato, hanno anche sequestrato tutto, il nuovo negozio, le auto, le nostre cose».

Un ruolo determinante lo hanno svolto i legali: «A loro va il nostro ringraziamento, in particolare all’avvocato Chieffo, ma anche agli atripaldesi che ci hanno dimostrato la loro solidarietà».

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