Giovedì, 21 Nov 24

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«Atripalda di allora era un sogno»

Enzo Angiuoni scrive nella premessa del libro: Se penso a tutto ciò che è andato distrutto...

Come si fa a raccontare ai più giovani, a chi conosce solo la realtà attuale, di persone, luoghi, colori, perfino odori del tuo paese, al quale ti senti così legato da considerarlo tra le cose più care della tua vita? Come si fa a trasmettere emozioni e sensazioni che sono rimaste in te, nella tua memoria, nei tuoi ricordi, nei tuoi affetti? E, poi, c’è una differenza enorme fra la realtà attuale e quella vissuta dalla mia generazione. Tutto è cambiato: lo stile di vita, la gente, i luoghi. Solo le fotografie di questo libro possono aiutare i miei coetanei e tutti i concittadini ad immaginare quanto fosse

 

bello, sì proprio bello, vivere ad Atripalda nel periodo che va dall’immediato dopo-guerra fino agli anni sessanta, sessantacinque. Eravamo poveri, poco più di tremila anime, ci conoscevamo tutti: un grande nucleo unito, compatto. Ci rispettavamo e ci volevamo bene. Questa è stata sempre la nostra ricchezza. Non avevamo

niente, ma al tempo stesso sentivamo di avere tutto ciò di cui avevamo bisogno: la nostra infinita serenità, la dignità, l’assoluto rispetto per il paese e per le persone.

Atripalda di allora era un sogno!

Ogni volta, capita spesso, che affiorano i ricordi, mi sorge una rabbia irrefrenabile per come sia andata distrutta e cambiata brutalmente.

Le immagini di questo libro lo mostrano chiaramente. La mia Atripalda... Nelle lunghissime giornate d’estate, il tempo veniva scandito dal suono dell’orologio del campanile della Chiesa madre.

Alla sveglia dalla pennichella pensava il fontanaro, che, con il suo violentissimo getto d’acqua, puliva le strade dalla polvere e ci assicurava un po’ di refrigerio. Verso sera, il quadrilatero delle vie più frequentate del paese – via Rapolla, via Piazza, via Aversa, via Fiume – diventava una sorta di trattoria all’aperto: si preparava

la cena all’interno o davanti ’o vascio e moltissimi la consumavano seduti davanti alla porta. Cibi semplici quanto saporiti, emanavano profumi intensi e deliziosi. Cucinare era un’arte,da grande chef: rigoroso il rispetto della tradizione, ma anche tanto ingegno per far bastare per tutti le poche cose disponibili! In via Rapolla, il ricordo è nitido, c’era il negozio di mia nonna Rosina; vendeva fave cotte e lupini salati, che spesso rappresentavano la cena per moltissime

famiglie. Io, il più piccolo della compagnia, le stavo vicino e la aiutavo riempiendo i cuoppi. Piazza Umberto I, sotto ‘e teglie, la collina di San Pasquale, la Pagoda: altri luoghi di incontro pieni di fascino e suggestione. Ma il quartiere più bello era quello arabo, la casbah, ‘ncoppa ‘e tiratore. L’Arco della Madonna di Montevergine ne costituiva il naturale portale di accesso ed ogni anno, nei due giorni dedicati alla Madonna, risplendeva di luci, suoni e

colori. Noi ragazzi giocavamo con un pallone fatto di carta o di stracci, legato con gli elastici ricavati dai copertoni delle ruote bucate delle auto. Giocavamo scalzi, non per evitare di sciupare le scarpe, ma perché non le avevamo! La carriola ci serviva per lanciarci a capofitto lungo le discese; quando acquistava

velocità, puntualmente si rovesciava. Imperterriti, nonostante il rischio di cadere e farci male, continuavamo a salire e scendere la discesa più ripida, quella... e ’ncoppa Santa Maria.

Passavamo così le giornate d’estate, sotto il solleone, nella nostra Atripalda. Non sapevamo cosa fosse il benessere. Non possedevamo niente, ma avevamo veramente tanto: libertà, spensieratezza, voglia di stare insieme. E tanta sicurezza, che ci consentiva di dormire con la porta di casa aperta e giocare per strada senza timori. Più tardi arrivò il biliardino, il gioco del calcetto. Una conquista, per

noi, enorme, che cambiò il nostro modo di giocare, non quello di vivere il paese. Oggi, Voi giovani, avete internet: una conquista ‘vera’, una finestra sul mondo, da cui, però, non è possibile vivere il fascino del vicolo accanto.

Enzo Angiuoni

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