Un profilo del governatore del Molise, amministratore di giustizia e autore di opere di diritto tracciato dal prof. La Sala nel 350° anniversario della nascita. E un sonetto inedito dedicato alla nostra città
Esponente di una delle famiglie più cospicue, attivamente impegnata, sin dalla fine del ‘500, nella gestione pubblica e nell’amministrazione del patrimonio feudale dei Caracciolo, Filippo Bello è concordemente ritenuto uno degli esponenti di maggior rilievo dell’erudizione storico-letteraria irpina nel XVIII secolo. Figlio di Antonio (1636 - ?), dottore in utroque iure e di Beatrice Capozzi, studiò filosofia a Napoli presso i Gesuiti, dove successivamente, seguendo le orme paterne, si laureò in diritto. Dopo aver esercitato per alcuni anni la professione forense, nella quale riscosse largo e riconosciuto consenso (tra l’altro ebbe il favore di Eliseo Danza e Pietro Giannone), si dedicò all’amministrazione pubblica, prima come Governatore nel Molise e poi come amministratore di giustizia. La morte del padre, forse nell’ultimo decennio del ‘600, gli impose il ritorno ad Atripalda, dove si impegnò prevalentemente nella cura delle rendite di famiglia senza trascurare gli studi storico-letterari, che avevano appassionato anche il padre Antonio, autore di opere inedite (sui privilegi municipali e sugli uomini illustri, del 1670). Autore di opere di diritto (Commentarij sulla legge romana), di una Vita di San Sabino (che egli identificava con un omonimo vescovo di Canosa, che sarebbe morto ad Atripalda) ed, in aspra polemica con Scipione Bellabona, di una Istoria del Tripaldo (opera manoscritta del 1716 nota al Mommsen), tutte purtroppo perdute.
Il Bello, durante la sua permanenza a Napoli, fu coinvolto in un'inchiesta del Tribunale del Sant'Uffizio ed il 3 gennaio 1693 fu processato, insieme a Giacinto De Cristofaro e Basilio Giannelli per “"proposizioni ereticali”. Il processo, verosimilmente basato su indizi generici, si concluse con una assoluzione. (Devo questa interessante segnalazione ad Eugenio Laurenzano, il quale a sua volta la deriva da L. Obstat, L'Inquisizione a Napoli. Processo agli ateisti, 1974)
Tra il 1713 ed il 1718 ebbe una intensa corrispondenza (18 lettere) con l’erudito Matteo Egizio, al quale inviò, tra l’altro, una sua opera Taziana dissertazione, perché la emendasse. Doveva trattarsi di pagine storiche ed erudite relative ad Abellinum e di chiose e commenti critici a testi pubblicati. E’ sicuramente documentato, per esempio, sempre attraverso le lettere all’Egizio (una del 25 aprile ed una del 22 agosto 1718), che il Belli avesse approntato delle note all’Avellino illustrato da Santi e Santuarj, di F. De Franchi (Napoli 1709) che aveva successivamente affidato all’ “ammende” dell’Egizio, pregandolo di effettuare personalmente aggiunte e correzioni alla sua Dissertazione. L’opera della quale non si ha notizia per altra via (neppure nel profilo biografico che un secolo più tardi gli dedicò Filippo de Jorio) non vide mai la luce, presumibilmente per la sopraggiunta ed improvvisa morte, a cinquantacinque anni, nel 1719.
Di Filippo Belli furono pubblicati, invece, alcuni componimenti poetici composti in occasione della nascita di Marino Francesco Caracciolo, primogenito del Duca Francesco Marino e di Giulia D’Avalos.
I versi (un’espressione musicale e lieve della stagione poetica d’Arcadia, fiorita proprio grazie al mecenatismo dei Caracciolo nel palazzo ducale di Atripalda) furono stampati in Napoli nel 1714, presso Paolo Severino. Essi facevano parte di una raccolta di Rime di Andrea, Tommaso e Fabrizio Marena, Giuseppe de Rito, Domenico Andrea De Milo, Francesco e Mattia Di Donato, Sivestro Homodei, Domenico Belli, Aniello Antonio e Niccolò Del Re, dell’arciprete della collegiata di S. Ippolisto D. Giuseppe Rubino, del sindaco di Atripalda Barone Marcantonio Bello, Niccolò Rapolla, Niccolò Antonio e Pasquale D’Angioni.
Di Antonio Bello e del figlio Filippo lasciò una nitida testimonianza Vincenzo Maria Bello nella Nota all’Iter Venusinum di D. Michel’Arcangelo Lupoli.e THeodor Mommsen, nelle pagine introduttive alla voce Abellinum del Corpus Inscriptionum latinarum (XXXVII, p. 128).
Tripalda mia, c’hai ne l’Irpine imprese
Mostro pronto lo ‘ngegno, e più la mano,
E tu Sabato ancor, ch’il colle, e ‘l piano
De basso irrighi, ma gentil paese;
Felici voi, cui l’alma Giulia ha rese
Le voglie paghe, e d’un Fanciul sovrano
Avvi arricchito, ch’oltra l’uso umano,
Tra noi sua grande idea dal Ciel discese.
Ma sovr’ogn’altro avventuroso appieno,
Sei tu Signor, ch’in lui mirando espresso
Il tuo volto, lo baci, e stringi al seno.
E i dolci lumi ancor godi tu stesso,
Sopir col canto placido, et ameno,
Rimbombando al bel suon Pindo, e Permesso.
(La foto è tratta da: F. De Iorio, Filippo Belli, 1819)
Commenti
Con i più cordiali saluti.
Mario Rodolfo Alfredo Belli